A prima vista potrebbe definirsi un museo. Solo che lì dentro, in quel piccolo locale di via dell’Anticaglia, le macchine sono vive e funzionanti. Siamo nell’officina d’arti grafiche di Carmine Cervone, nel cuore del centro storico di Napoli, sul Decumano parallelo a via Tribunali. Sull’insegna campeggia la scritta “Tipografia del ‘900”, subito prima di varcare la porta a vetri che ci conduce nel laboratorio.
Sulla sinistra un banco da lavoro, di fronte un torchio, a destra una stampatrice e una linotype di inizio secolo (il Ventesimo, non questo). Tutto in piena attività. Da questi macchinari escono fuori libri, quaderni, frontespizi, stampe d’arte. Nell’aria odore d’inchiostro e carta. Carmine è qui, seduto su uno sgabello, che compone una riga: “Si usa la linotype come fosse una macchina da scrivere. Si digita su questi tasti e, da quest’altro lato, vengono fuori le matrici. Queste ultime saranno poi trasferite qui – ci indica una caldaia retrostante con del piombo fuso – dove verrà poi formata la riga”. L’antenato, nemmeno troppo antico, dei moderni programmi di videoscrittura. “Questo è il macchinario che ha permesso ai nostri padri e ai nostri nonni di leggere. Tutti i libri venivano composti così”.
LE MATRICI FORMANO UNA RIGA
Dall’inizio del secolo Ventesimo al principio del Ventunesimo. Carmine Cervone è partito nel 2001 con attrezzature che risalgono a un centinaio d’anni prima. La sfida era ed è quella di dimostrare che, recuperando vecchi materiali ormai dismessi, fosse possibile creare una forza economica, “almeno un posto di lavoro”, come ci dice lui. Sono passati sedici anni, alla sala “vintage” Carmine ha associato un altro locale con attrezzature più moderne per le stampe che potremmo definire “quotidiane”, come tesi di laurea o biglietti da visita. Ma la stampa artigianale, il “pezzo unico”, è ancora qui: fra queste quattro mura dove si respira ancora l’atmosfera della bottega.
Una bottega “fuorilegge”, come la definisce lo stesso tipografo. Questi macchinari sono stati messi al bando per motivi legati alla salute e alla sicurezza sul lavoro, dato che la linotype, per esempio, utilizza il piombo per comporre i caratteri. “Capisco le preoccupazioni sulla sicurezza – dice Carmine – ma io credo che la Storia non possa essere messa fuorilegge da una norma. Da un lato mi dicono e mi hanno sempre detto che bisogna valorizzare queste attività, far sopravvivere l’artigianato; dall’altro mi dicono che di fatto non posso farlo. Io chiedo solo di poter essere “messo in regola”. Come la legge permette a un’auto d’epoca di circolare, pur con determinate restrizioni, spero possa nascere una normativa simile anche per chi, come me, si dedica ancora alla produzione artigiana”.
PULIZIA DEL TELAIO DA STAMPA
Napoli, d’altra parte, è una città dove la manifattura è sempre stata presente. Dai maestri pastorai ai tipografi, dalle porcellane ai tessuti, “non si è mai sviluppato un distretto industriale”, come evidenzia Carmine. “L’artigianato è lì dove c’è una reale povertà strutturale”. Un’arte di svilupparsi, più che d’arrangiarsi, attraverso modalità che non sono quelle della produzione in serie. A Napoli l’artigianato è identità e cifra costitutiva di intere famiglie. Carmine quest’arte non l’ha ereditata: l’ha cercata consapevolmente. Ha recuperato vecchi macchinari e ha cominciato a lavorare. Senza farsi troppe domande e senza chiedersi dove sarebbe arrivato col solo aiuto di una stampatrice Heidelberg, di una macchina per la composizione manuale e di un torchio del 1840, che Carmine ha messo in vetrina sotto l’insegna del “più piccolo museo della tipografia”. Se il futuro passa anzitutto per il proprio passato, questa bottega ne è l’esempio vivente.
Punto importante: al bando ogni nostalgia anacronistica. Carmine non è un paladino dell’analogico che si contrappone romanticamente all’era del digitale. “Per me i due sistemi non sono in contrapposizione, possono benissimo coesistere. Penso semplicemente che, chi oggi si dedica ai computer o alle stampanti 3D, debba conoscere da dove proviene il suo lavoro, quale sia la sua origine. Così come penso che l’artista debba essere anche il produttore della sua opera e debba letteralmente ‘sporcarsi le mani’. È una questione di consapevolezza, non di rifiuto nei confronti dei moderni sistemi di produzione”. Un sapere artigiano che qui, nel mezzo di via dell’Anticaglia e sotto un contrafforte d’epoca romana, rimane impregnato in ogni singolo carattere impresso su carta.